di Davide Gottini
Come alcuni di voi già sanno, e altri scopriranno alla fine di questo inciso, faccio il barista in una caffetteria del centro.
Capisco la meraviglia, ma da bibliotecari non ci si arricchisce. O almeno non subito.
Comunque, è una silenziosa mattina di inizio agosto, al caffè non c’è ancora nessuno. Me ne sto seduto su uno sgabello dietro al bancone, cercando di capire se ho più voglia di imporre ai futuri clienti un concerto di De Andrè e la PFM o un album di Bertoli. All’improvviso entra un signore con una borsa carica di libri, che chiede di Davide.
“Sono io!”
Devo essere onesto: non ricordo né il nome del signore, né mi lancerò in descrizioni tanto superflue quanto approssimative. Ricordo invece di avergli dato subito del tu, nonostante la pluridecennale differenza di età, e di essermi poi subito dovuto correggere, di fronte all’ostinatezza del suo Lei.
Ci eravamo messi d’accordo per mail. Il signore era in città per pochi giorni – veniva a Lipsia ogni anno, in vacanza – e voleva donare alla biblioteca i tanti libri che, diceva, avrebbero fatto più comodo a noi che a lui. Gli avevo chiesto di passare un giorno qualsiasi al caffè (la biblioteca era chiusa per la pausa estiva) e così ha fatto.
Appoggio la borsa su un tavolino, sfilo con cura una dozzina di libri. Tutta narrativa, a occhio.
“Sono autori tedeschi tradotti in italiano, che scrivono principalmente degli anni a cavallo della Wende”, spiega, mentre con un filo di dolore osserva i suoi libri maneggiati da uno sconosciuto.
“Ah, interessante!”
“Quello che tiene in mano adesso è un capolavoro.”
“La Torre, di Uwe Tellkamp. Mai sentito.”
“Lo legga appena può.”
“Stavo giusto cercando un bel romanzone per scavallare agosto.”
“Non badi alla mole, si legge da solo. E’ IL romanzo sulla Wende.”
“Molti libri sono di questo Ingo Schulze. Il nome non mi è nuovo, la faccia neanche, ma non ho mai letto niente.”
“Merita, senza dubbio, specie i racconti pietroburghesi e Vite nuove, che è un primo faccia a faccia con la riunificazione. Il confronto tra le aspettative e la realtà, e l’impressione di essere stati presi in giro, se non umiliati, che spiega molte cose della Germania contemporanea. C’è anche, oh, spero di non averlo dimenticato, ah no, eccolo qua, una raccolta di interventi di Schulze a metà tra l’autobiografia e l’attivismo politico. Non tutto condivisibile, ma insomma, se non altro una testimonianza importante.”
“La ringrazio molto. Sono perfetti per la biblioteca. Letteratura tedesca contemporanea tradotta in italiano. E’ esattamente…”
“Sì, dicevo, questo invece, L’ottava vita, insomma, quest’altro invece è divertentissimo, Elizabeth a Rügen, infatti vede,”
“Ha scritto sì col lapis, cerchiato.”
“Vuol dire che mi è piaciuto e che lo consiglio. Faccio sempre così. Luogo, data, e una sorta, diciamo così, di giudizio, per ricordarmi, più che altro…Poi che altro abbiamo, ah sì, un Inventario di alcune cose perdute, altri racconti di Schulze, e questo è proprio di Lipsia, cioè, l’autrice intendo, è proprio di Lipsia, Juli Zeh.”
“Appena sarà possibile li porterò alla biblioteca e li aggiungerò al catalogo.”
“E Lei, mi dica, che ci fa qui? Studia?”
“No, vivo qua.”
“Ah, ho capito.”
Devo aver iniziato io (perché di solito inizio io) con le offese all’Italia e il sollievo che ho provato scoprendo che non in tutta Europa si respira la stessa aria mefitica di campanilismo misto a fobica ritrosia al cambiamento, fatto sta che il signore ha preso la palla al balzo e ha srotolato un’appassionata serie di esempi probanti in modo irrefutabile la barbarica arretratezza del comune paese d’origine. O nazione, che dir si voglia.
“Bene, la saluto.”
Senza accettare neanche un caffè, il donatore di romanzi tedeschi sulla Wende se ne va, lasciandomi al mio insoluto dilemma musicale.
Quattro mesi più tardi sono riuscito finalmente a portare i libri in biblioteca (in tutto questo tempo, per mere ragioni di spazio, sono rimasti a casa mia, causandomi quotidiani e crescenti sensi di colpa), e sono adesso a disposizione dei soci di Italiani a Lipsia.
E’ col ripetersi di storie di questo tipo, di gente che passa, o che dopo troppi anni se ne va, o torna, chissà dove, e decide di lasciarci i suoi libri, che si è composta negli anni la biblioteca di Italiani a Lipsia. Per questo mi piace vederla come il segno concreto di chi ha attraversato questa città.
Balzerà subito agli occhi, infatti, che nel nostro catalogo sono più le lacune illustri che le presenze. Non c’è una Divina Commedia, non ci sono Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Manzoni…(c’è tuttavia un raro Leopardi: una sua traduzione della Batracomiomachia attribuita ad Omero, con i Paralipomeni, una sorta di sequel, che è una satira in veste favolistica dei moti rivoluzionari del 1820-21), non ci sono libri da classifica, gli imperdibili ultimi successi che scintillano nelle vetrine di Feltrinelli, non c’è un canone riconoscibile, una coerenza interna, un’offerta chiara, un lettore modello, né per la narrativa, né tantomeno per la saggistica.
Quel che c’è sono libri (e, di recente, tanti bei film!) donati, messi in comune, a disposizione di chiunque voglia e possa leggere in italiano.
Lungi da me fare della retorica. Sarebbe tanto facile quanto inutile mettermi qui a incorniciare un discorsetto sugli eroi invisibili che donano libri, e sulla biblioteca di Italiani a Lipsia come segreto angolo di resistenza all’utilitarismo dominante.
Il punto è un altro: è fare rete. Chi, come e perché, che avvenga tramite i libri, la lingua, il cibo, la musica, la lettura dei giornali, la cultura generalmente intesa, importa fino a un certo punto. Fosse anche per tramite di un commento scritto a lapis sulla seconda copertina di un romanzo, quel che importa è parlarsi.
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Credit: Emre Can Acer