Di terra e di mare, donne e uomini nelle migrazioni

Terza Quatscherata

Era tanto che non facevo un turno in biblioteca. La temperatura polare che regna al piano terra dell’Europa Haus non mi permette di dire che mi mancava, ma la vista della grande libreria ad angolo, straripante di libri, magnetizza subito la mia attenzione. Come ogni volta, scorro i ripiani alla ricerca di sorprese. Capito quasi per caso nella sezione ‘Poesia’. Bertolucci (Attilio), Omero, Leopardi… Sulle poesie di Ho Chi Minh ho quasi ceduto, ma a convincermi è stato un libretto fine, nascosto da un ingombrante Ungaretti: “Di Terra e di Mare. Donne e uomini nelle migrazioni”, di Marzia Alati. 

Lo sfilo, mi siedo, alzo il termosifone al massimo. 

Non sono poesie. Sono racconti. Non sono neanche racconti. Sono interviste diventate racconti. 

Buona lettura e buon viaggio”, ci augura a penna chi ha donato questo libro. 

Una citazione di Pavese ci fa subito divagare: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli (…)”

Proprio questo mi ha colpito, qualche settimana fa, nella risposta di una conoscente alla domanda: “E allora, è una vita che non ti si vede, dove sei sparita?”, perché ne è seguito un titubante: “A casa.”

‘Casa’ sarebbero gli Stati Uniti. O meglio, lo sono stati fino all’ultima volta. E invece qualcosa è cambiato, è stato diverso, ha detto, non era né qui né lì, non sentiva più…non riusciva a spiegarsi cosa vuol dire ‘non essere più a casa’.

Una settimana dopo questo incontro me ne sono andato in Italia, per la mia settimana di terapia contro la Winterdepression. Cinque giorni di sole sincero, mare deserto, vino. E ho capito, credo, quel che cercava di esprimere quella conoscente americana.

Non ero a casa. Non avevo, come dice Pavese, la consapevolezza che “nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.” 

L’Italia non si muove, ma di certo non perché resta ad aspettare me. 

Il fatto è che non colgo più l’ironia della mia gente. Prendo tutto troppo sul serio, come i tedeschi. Non sopporto più le inefficienze, come la cassiera della Coop che chiacchiera con una cliente mentre io aspetto. Se uno sconosciuto mi rivolge la parola, ci metto un attimo di troppo prima di rispondere, e comunque la mia prima, istintiva, reazione, sarebbe: “Wer sind Sie?” 

Ma, d’altro canto, anche Lipsia non è il mio paese. Ancora non riesco ad accettare ciò che è normale, come entrare in un luogo pubblico senza dire ‘buongiorno’, essere scortesi senza motivo, saccenti senza motivo, spigolosi e puntigliosi senza mai un vero motivo. L’esperienza più straniante che mi capita di vivere qui, da italiano, è la capacità delle persone di rendere completamente invisibili gli altri. Mi ammonirete: non generalizzare! Ed io ribatto: è un’esperienza quotidiana, che avrete fatto certamente anche voi. In Augustusplatz c’è una senzatetto che tutte le mattine, da quando sono qua, urla. All’inizio pensavo che gridasse al cielo. Ne avrebbe tutte le ragioni. Poi mi sono accorto che insultava la gente, e mi è stata un po’ più simpatica. Un giorno – in questo forse scorgerete il segno del paradosso che sto cercando di esprimere – un giorno mi sono accorto che aveva insultato me. Mi ha visto! 

E’ storia antica. Sciascia, in un racconto intitolato “L’esame”, sembra riferirsi alla stessa questione. 

“Perché non te ne vai in Germania anche tu?”, chiede il protagonista a un disoccupato. E quello risponde: “Ci sono già stato, in Germania. Ma io dico: l’uomo non è un cane. Può starsene straregnato in un paese non suo, a soffrire perché tutto questo gli manca”, accennò alla chiesa, alla piazza intorno, al cielo che si struggeva nell’oro del tramonto, “ma il diritto non deve levarglielo nessuno.”

“Il diritto? E che, non ti pagavano?”

“Mi pagavano, il conto ad ogni venerdì sera tornava al centesimo: onesti, precisi. Ma io voglio dire il diritto di essere come ora qui: che ci siamo appena conosciuti, ma lei è una persona e io sono una persona, e siamo uguali, e parliamo… Con loro invece è diverso: non ci vedono, ecco, non ci vedono…”

Adesso, non mi fraintendete: non voglio paragonare la mia piccola e privilegiata confusione con la condizione di un Gastarbeiter siciliano degli anni ‘50. Dico solo che… 

Una coppia entra in biblioteca, interrompe il mio divagare. Quasi come se mi avessero ascoltato, finiamo a chiacchierare proprio di questo problema, di questa sensazione così difficile da definire, e così comune che a tratti ci sembra banale. 

“Cercavamo dei libri sui…”, e qui si sono subito arenati, a causa di una precedente discussione: lei voleva dire “migranti”, ma ha aggiunto “con te devo dire expat”, e lui, “no, anche expat non mi piace mica tanto…”, “allora come dobbiamo chiamarci?”, così mi sono unito alla conversazione e ne è venuto fuori che forse siamo a casa nostra sia qui che lì, perché siamo tutti nati a cavallo di Maastricht e per girare in Europa non abbiamo mai avuto bisogno del passaporto, eppure ‘europei’ suona retorico, artificiale. Nonostante la pluriennale permanenza in Germania non siamo tedeschi, e certamente non siamo più fino in fondo italiani. Non siamo expat, perché la storia della parola non ci piace, ma non siamo neanche migranti, perché il confronto con una una condizione esistenziale che associamo al sacrificio e alla sofsofferenci sembra inappropriato, se non offensivo. 

La coppia se ne va, promettendo di tornare, “Buono a sapersi, che qua ci sono libri in italiano”, io torno alle mie storie di terra e di mare. 

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Sono sedici storie, sedici interviste a persone migranti, riscritte in forma di racconto. Una giovane donna marocchina e il suo rapporto col padre, col velo e con l’ospitalità; un musicista senegalese, a cui il lavoro eternamente precario ha seccato le mani e la speranza; una donna peruviana, che in Italia ha smesso di cercare una famiglia, e così via, fino ad una donna argentina, figlia della migrazione che partiva dall’Italia, all’inizio del secolo scorso. 

Il libro termina con molti ringraziamenti e un auspicio: “…che un nuovo immaginario liberi le frontiere, poi le nostre menti, e infine le nostre terre.” 

Adesso che il riscaldamento ha scaldato un po’ l’aria, posso dirlo: mi mancava, la biblioteca.

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